lunedì 30 settembre 2019

Rosa d'amore



Fratello mio,
                      [...] Quando riceverà questa lettera, sicuramente avrò lasciato la terra. Il Signore, nella sua infinita misericordia, mi avrà aperto il suo regno e potrò attingere ai suoi tesori per prodigarli alle anime che mi son care. Sia pur certo, fratello mio, che la sua sorellina manterrà le sue promesse, e la sua anima, liberata dal peso dell'involucro mortale, volerà felice verso le lontane regioni da lei evangelizzate. Ah! Fratellino mio, lo sento bene, le sarò molto più utile in cielo che sulla terra ed è per questo che vengo ad annunziarle con tanta gioia il mio prossimo ingresso nella città beata, sicura che parteciperà alla mia gioia e ringrazierà il Signore di offrirmi così il mezzo per aiutarla più efficacemente nelle sue opere apostoliche.

Conto molto di non restare inattiva in cielo; il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime. È quello che domando al buon Dio e sono sicura che egli mi esaudirà. Forse che gli Angeli non si occupano continuamente di noi senza cessare mai di contemplare il volto di Dio, di perdersi nell'oceano senza rive dell'Amore? Perché Gesù non mi dovrebbe permettere d'imitarli?

Vede bene, fratello mio, che se lascio il campo di battaglia, non lo faccio per il desiderio egoistico di riposarmi; il pensiero della beatitudine eterna fa appena trasalire il mio cuore. Da tanto tempo ormai la sofferenza è divenuto il mio cielo quaggiù e stendo ad immaginare come potrò acclimatarmi in un Paese dove la gioia regna senza mescolanza alcuna di tristezza. Bisognerà che Gesù trasformi la mia anima e le dia la capacità di godere, altrimenti non saprei sopportare le delizie eterne.

Ciò che m'attira verso la patria dei cieli, è la chiamata dei Signore, è la speranza di amarlo finalmente come ho tanto desiderato e il pensiero che portò farlo amare da una moltitudine di anime che lo benediranno in eterno.

Non avrà il tempo, fratello mio, d'inviarmi le sue commissioni per il cielo, ma me le immagino facilmente. Del resto basta che me le accenni appena: capirò a volo e porterò fedelmente i suoi messaggi a nostro Signore, alla nostra Madre Immacolata, agli Angeli, ai suoi Santi preferiti. Domanderò per lei la palma del martirio e le sarò vicino, a reggere la sua mano perché possa cogliere senza sforzo questa palma gloriosa. Poi voleremo insieme felici verso la patria celeste, circondati da tutte le anime che saranno la sua conquista.

Arrivederci, fratello mio, preghi molto per sua sorella; preghi per nostra Madre il cui cuore sensibile e materno non sa rassegnarsi al pensiero della mia partenza.

Conto su di lei per consolarla. Sono, per l'eternità, la sua sorellina

Teresa del Bambino Gesù del Volto Santo


Sul crocifisso a scuola

Risposta laica al Ministro Fioramonti, che vorrebbe che nelle aule scolastiche non fosse esposto il Crocifisso


Grazie a Lorenzo Borrè e Danilo Leonardi per avermi passato l'articolo. Che ovviamente condivido.
Il ministro Fioramonti poteva risparmiarsi la sua uscita. Con il solito errore di fondo. Laico non significa né a-religioso né tantomeno a-teo. Significa semplicemente non-chierico. 


Potrebbero fare lo sforzo di inventarsi un altra parola, anche dicendo laico dimostrano di dipendere da quella Croce. Piaccia loro o no. 



Natalia Ginzburg, Articolo pubblicato su "l'Unità" del 22 marzo 1988.

"Dicono che il crocifisso deve essere tolto dalle aule della Scuola. II nostro è uno stato laico che non ha diritto di imporre che nelle aule ci sia il crocifisso... A me dispiace che il crocefisso scompaia per sempre da tutte le classi. Mi sembra una perdita. Se fossi un insegnante, vorrei che nella mia classe non venisse toccato...

II crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l'immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l'idea dell'uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Sono quasi duemila anni che diciamo "prima di Cristo" e "dopo Cristo". O vogliamo forse smettere di dire cosi?

II crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C'e stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro. E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa di particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati.

Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non e forse morto nel martirio, come e accaduto a milioni di ebrei nei lager?

II crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino.

II crocifisso fa parte della storia del mondo. Per i cattolici, Gesù Cristo è il Figlio di Dio. Per i non cattolici, può essere semplicemente l'immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo. Chi è ateo, cancella l'idea di Dio ma conserva l'idea del prossimo. Si dirà che molti sono stati venduti, traditi e martoriati per la propria fede, per il prossimo, per le generazioni future, e di loro sui muri delle scuole non c'è immagine. È vero, ma il crocifisso li rappresenta tutti. Come mai li rappresenta tutti? Perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli: tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei, neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini. E di esser venduti, traditi e martoriati e ammazzati per la propria fede, nella vita può succedere a tutti. A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola.

Gesù Cristo ha portato la croce. A tutti noi è accaduto o accade di portare sulle spalle il peso di una grande sventura. A questa sventura diamo il nome di croce, anche se non siamo cattolici, perché troppo forte e da troppi secoli è impressa l'idea della croce nel nostro pensiero. Tutti, cattolici e laici, portiamo o porteremo il peso di una sventura, versando sangue e lacrime e cercando di non crollare. Questo dice il crocifisso. Lo dice a tutti, mica solo ai cattolici.

Alcune parole di Cristo, le pensiamo sempre, e possiamo essere laici, atei o quello che si vuole, ma fluttuano sempre nel nostro pensiero ugualmente.

Ha detto "ama il prossimo come te spesso". Erano parole gia scritte nell'Antico Testamento, ma sono divenute il fondamento della rivoluzione cristiana. Sono la chiave di tutto. Sono il contrario di tutte le guerre. Il contrario degli aerei che gettano le bombe sulla gente indifesa. Il contrario degli stupri e dell'indifferenza che tanto spesso circonda le donne violentate nelle strade.

Si parla tanto di pace, ma che cosa dire, a proposito della pace, oltre a queste semplici parole? Sono l'esatto contrario del modo in cui oggi siamo e viviamo. Ci pensiamo sempre, trovando esattamente difficile amare noi stessi e amare il prossimo più difficile ancora, o anzi forse completamente impossibile, e tuttavia sentendo che là è la chiave di tutto. Il crocifisso queste parole non le evoca, perché siamo abituati a vedere quel piccolo segno appeso, e tante volte ci sembra non altro che una parte del muro. Ma se ci viene di pensare che a dirle è stato Cristo, ci dispiace troppo che debba sparire dal muro quel piccolo segno.

Cristo ha detto anche: "Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati". Quando e dove saranno saziati? In Cielo, dicono i credenti. Gli altri invece non sanno né quando né dove, ma queste parole fanno, chissà perché, sentire la fame e la sete di giustizia più severe, più ardenti e più forti".


Il quattordicesimo compleanno di Sara

Oggi, 30 settembre, è il quattordicesimo compleanno di Sara. E' arrivata con tutta calma, alle 14.00 di quattordici anni fa. Ero presente al parto e mi pare ieri che ero al San Pietro Fatebenefratelli, a Roma...







Ma non lo è ieri, basta che ci guardiamo entrambi allo specchio per capirlo... Io con i capelli ingrigiti, più saggio non credo, con la stessa passione per la vita e per Chi in essa ci guida quello sì. Sara alta come me, un'adolescente che cresce a vista d'occhio...

Alle 14 (il numero torna...) vado a prenderla a scuola, alla Caterina Cittadini. E' in terza media, perchè, in accordo con la mamma, fino alla quinta elementare siamo ricorsi al sistema della scuola parentale e Sara ha frequentato la scuola materna un anno in più del solito ed è passata in prima elementare a sette anni.

E' grande, non posso più portarmela nello zaino dietro le spalle, salendo in montagna, come mi piaceva fare quando era piccola (siamo saliti anche al Vallone degli Invincibili, sulle Alpi Valdesi, con quel sistema...). 

Ma più cresce lei, più cresce l'impegno, in tutti i sensi. Visto quello che gli altri dicono di Sara, direi che per ora non me la sono cavata malaccio, non ce la siamo cavata malaccio. La mamma, io, Antonella, i maestri Francesco e Martino, ora i professori delle medie. Anzi, direi che abbiamo fatto un buon lavoro, ringraziando Dio e facendo tesoro della Sua grazia. 

Ora l'impegno cresce, l'adolescenza è un tempo complicato, l'ho vissuto anche io, e mi ricordo la fatica che ci voleva a conciliare quello che avevi imparato a casa ed in famiglia, le cose che studiavi a scuola, sempre più ricche e complesse, con quanto andavi sperimentando tu, che ti sentivi forse per la prima volta quello che eri sempre stato. Autonomo, con la tua libertà, che avevi le tue letture, i tuoi amici che non erano più solo i compagni di classe. Sara ha amici ed amiche belghe, ora, conosciuti ad un campo scuola questa estate, di cui al massimo io ho visto la faccia in foto, ma con cui parla spesso, in inglese, via cellulare. Non sono, né sono mai stato un papà controllore ma confesso che la cosa mi colpisce. 

L'adolescenza è un tempo complicato e questo, rispetto a quando sono stato adolescente io, a volte mi pare un mondo molto più complicato. Per carità, io sono stato adolescente negli anni di piombo, a quattrodici anni ero in quarto ginnasio e mi ritrovavo con diciassettenni e diciottenni di Autonomia Operaia che avevano come passatempo preferito andare a provocare i loro coetanei di destra del vicino scientifico (Manara e Kennedy per chi è di Roma).

Oggi la situazione sembra più calma, ma solo in apparenza. Perchè quando ero adolescente io certi valori erano sentiti ed irrinunciabili. E se te li avevano insegnati in famiglia non correvi troppi rischi. Ed io, pur impegnandomi, pur facendo volontariato e politica, quei rischi non li ho mai corsi. 

Oggi invece c'è una crisi di quei valori che viene da lontano, e ci sono disvalori, legati alle dimensioni più importanti dell'esistere e dell'essere, il riconoscimento ed il rispetto della vita, la sessualità, l'etica del lavoro, la fede, che è la società stessa, che non sa più chi è e soprattutto da Chi viene, che cerca di far passare come "buoni e giusti" mentre sono ingiusti, volgari, e disorientanti. 

Sento insomma spesso di fare più fatica di quanto mia madre e mio padre ne abbiano fatta con me. Ma ho per Sara lo stesso amore, la stessa passione, la stessa voglia di impegnarmi che Giovanni e Graziella, i miei genitori, hanno avuto con me. 

Perchè Sara è un dono di Dio. Sara è da Dio. Sara a Dio un giorno tornerà. E per quegli anni che mi è affidata, perchè io la custodisca, voglio mettercela tutta. Perchè è quello stesso tesoro di bimba di tre chili scarsi che l'ostetrica mi ha dato in braccio, appena lavata, quattordici anni fa.

E perchè a pensarci mi viene da piangere, oggi come allora.  

La Parola di Dio: un dialogo a due dimensioni



Che cosa possiamo imparare noi da San Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura. Dice San Girolamo: "Ignorare le Scritture è ignorare Cristo". Perciò è importante che ogni cristiano viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. 

Questo nostro dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev'essere un dialogo realmente personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio ciascuno. Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio che si rivolge anche a noi e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. 

Ma per non cadere nell'individualismo dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la Chiesa viva

Il luogo privilegiato della lettura e dell'ascolto della Parola di Dio è la liturgia, nella quale, celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. 

La Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l'eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l'eterno, la vita eterna.

E così concludo con una parola di San Girolamo a San Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella Parola di Dio riceviamo l'eternità, la vita eterna. Dice San Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).

Autore: Papa Benedetto XVI (Udienza generale 14 Novembre 2007)

domenica 29 settembre 2019

Né a destra, né a sinistra

Solo sii molto forte e coraggioso; abbi cura di mettere in pratica tutta la legge che Mosè, mio servo, ti ha data; non te ne sviare né a destra né a sinistra, affinché tu prosperi dovunque andrai. 



Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo, giorno e notte; abbi cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai.

Giosuè 1:7-8

L'unità va cercata nella preghiera, piegando le ginocchia

Ebrei, protestanti, cattolici, americani, tutti noi dobbiamo prendere coscienza che il mondo ci chiama a sforzi eroici per la spiritualizzazione.

Non invochiamo l’unità religiosa -che non è possibile se acquistata al prezzo dell’unità nella verità- ma chiediamo un’unità delle persone religiose, nella quale ognuno marci separato secondo la luce della sua coscienza, ma tutti colpiscano insieme per il progresso morale del mondo.

Le forze del male sono unite; le forze del bene sono divise.

È possibile che non riusciremo mai ai ritrovarci nel medesimo banco – voglia Dio che accada – ma possiamo incontrarci sulle nostre ginocchia.

Potete stare certi che nessun sordido compromesso né equilibrismo vi riguarderà. Coloro che hanno fede faranno meglio a rimanere in stato di grazia e coloro che non l’hanno faranno meglio a capire le proprie intenzioni, poiché nell'era che viene ci sarà un solo modo per fermare le vostre ginocchia tremanti, e sarà piegarle e mettersi a pregare.

(Fulton Sheen)


Cuori e tesori

Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano. Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore.

Vangelo secondo Matteo 6:19-21

L’uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone; e l’uomo malvagio dal suo malvagio tesoro trae cose malvagie.

Vangelo secondo Matteo 12:35




Fondamentalmente i cuori tendono verso tre tesori: l'egotismo, ovvero l'affermazione dell'autonomia della volontà; la lussuria, ovvero l'amore sregolato del sesso; l'avarizia, ovvero l'amore sregolato del denaro e del lusso.

La maggior parte dei disordini da cui è affetta la gente dipende dall'aver essa il cuore in queste cose che non danno pace. Un uomo normale non ha bisogno di alcun aiuto esteriore per scoprire dov'è il suo cuore: nove volte su dieci, scoprirà che esso non sta dove dovrebbe stare.

Beati coloro il cui tesoro è Dio, che desiderano in tutti i modi che si compia la Sua Volontà, che pensano a Lui con tutti i loro pensieri. Allora, qualunque cosa accada al cuore umano in questa epoca atomica, esso sarà immortale come il suo tesoro...

(Fulton Sheen)

sabato 28 settembre 2019

La preghiera del cuore

L'articolista (l'articolo non è mio, l'ho ripreso dal sito di Radio Maria) conclude il suo pezzo con la difficoltà di apprendere questo tipo di preghiera. Ma omette una cosa: quando ci si riesce, si gode in una pace e di una gioia profonda, profondissima, che deriva dal sentirsi in comunione con Dio, Creatore e Signore dell'universo.



Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore o peccatrice

Nella storia del cristianesimo si constata che, in numerose tradizioni, esisteva un insegnamento sull’importanza del corpo e delle posizioni corporee per la vita spirituale. Grandi santi ne hanno parlato, come Domenico,Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola… Inoltre, fin dal IV secolo, incontriamo consigli a questo proposito nei monaci d’Egitto. Più tardi, gli ortodossi hanno proposto un insegnamento sull’attenzione al ritmo del cuore e sulla respirazione. Se ne è parlato soprattutto a proposito della «preghiera del cuore» (o la «preghiera di Gesù», che si rivolge a lui).

Questa tradizione tiene conto del ritmo del cuore, della respirazione, di una presenza a se stessi per essere più disponibili a Dio. È una tradizione molto antica che attinge dagli insegnamenti dei Padri del deserto egiziano, monaci che si sono dati totalmente a Dio in una vita eremitica o comunitaria con un’attenzione particolare alla preghiera, all’ascesi e al dominio sulle passioni. Essi possono essere considerati i successori dei martiri, grandi testimoni della fede all’epoca delle persecuzioni religiose, che cessarono quando il cristianesimo divenne religione di Stato nell’impero romano. A partire dalla loro esperienza, si sono impegnati in un lavoro di accompagnamento spirituale ponendo l’accento sul discernimento di ciò che si viveva nella preghiera. In seguito, la tradizione ortodossa ha valorizzato una preghiera in cui alcune parole tratte dai Vangeli sono accostate al respiro e ai battiti del cuore. Queste parole sono state pronunziate dal cieco Bartimeo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10,47) e dal pubblicano che prega così: «Signore, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18,13).

Questa tradizione è stata riscoperta di recente dalle Chiese d’Occidente, benché risalga a un’epoca anteriore allo scisma tra i cristiani d’Occidente e d’Oriente. E’ dunque un patrimonio comune da esplorare e da gustare, che ci interessa in quanto mostra come possiamo associare il corpo, il cuore e la mente su un cammino spirituale cristiano. Ci possono essere convergenze con alcuni insegnamenti provenienti da tradizioni dell’Estremo Oriente.

La ricerca del Pellegrino russo

I Racconti di un pellegrino russo ci permettono di accostarci alla preghiera del cuore. Attraverso quest’opera l’Occidente ha riscoperto l’esicasmo. In Russia esisteva un’antica tradizione secondo la quale certe persone, attirate da un cammino spirituale esigente, partivano a piedi attraverso la campagna, come mendicanti, ed erano accolte nei monasteri, Come pellegrini, andavano di monastero in monastero, alla ricerca di risposte alle loro domande spirituali. Questa specie di ritiro peregrinante, nel quale avevano un ruolo importante l’ascesi e le privazioni, poteva durare diversi anni.

Il Pellegrino russo è un uomo vissuto nel XIX secolo. I suoi racconti furono pubblicati verso il 1870. L’autore non è chiaramente identificato. Era un uomo che aveva un problema di salute: un braccio atrofizzato, ed era assillato dal desiderio d’incontrare Dio. Andava da un santuario all’altro. Un giorno, egli ascolta in na chiesa alcune parole tratte dalle lettere di san Paolo. Inizia allora un pellegrinaggio di cui ha scritto il racconto. Ecco come egli si presenta:

“Per grazia di Dio sono cristiano, per le mie azioni un grande peccatore, per condizione un pellegrino senza dimora e del genere più umile, che vaga da un luogo all’altro. Tutti i miei averi consistono in una bisaccia di pan secco sulle spalle, e la Sacra Bibbia sotto la camicia. Nient’altro. Durante la ventiquattresima settimana dopo il giorno della Trinità entrai in chiesa durante la liturgia per pregare un pò; stavano leggendo la pericope della lettera ai Tessalonicesi di san Paolo, in cui si dice: «Pregate incessantemente» (1Ts 5,17). Questa massima mi si fissò particolarmente nella mente, e incominciai dunque a riflettere: come si può pregare incessantemente, quando per ogni uomo è inevitabile e necessario impegnarsi anche in altre faccende per procurarsi il sostentamento? Mi rivolsi alla Bibbia e vi lessi con i miei occhi quello che avevo udito, e cioè che bisogna pregare «incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,18), pregare «alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese» (1Tm 2,8). Pensavo e pensavo, ma non sapevo che cosa decidere. «Che fare?», riflettevo. «Dove trovare qualcuno che possa spiegarmelo? Andrò per le chiese dove parlano celebri predicatori, forse sentirò qualcosa di convincente». E andai. Udii molte prediche eccellenti sulla preghiera. Ma erano tutti insegnamenti sulla preghiera in genere: che cos’è la preghiera, com’è necessario pregare, quali sono i suoi frutti; ma nessuno diceva come progredire nella preghiera. Ci fu sì una predica sulla preghiera nello spirito e sulla preghiera continua; ma non vi si indicava come arrivarci (pp. 25-26).

Il Pellegrino è dunque molto deluso, perché ha sentito quest’appello a una preghiera continua, ha ascoltato le prediche, ma non ha ricevuto risposta. Dobbiamo riconoscere che questo è un problema ancora attuale nelle nostre chiese. Sentiamo dire che bisogna pregare, siamo invitati a imparare a pregare, ma, in conclusione, la gente pensa che non ci siano luoghi dove ci si possa fare iniziare alla preghiera, particolarmente a pregare incessantemente e tenendo conto del proprio corpo. Allora, il Pellegrino comincia a fare il giro delle chiese e dei monasteri. E arriva da uno starec – un monaco accompagnatore spirituale – che lo riceve con bontà, lo invita a casa sua e gli propone un libro dei Padri che gli permetterà di capire chiaramente che cos’è la preghiera e di impararla con l’aiuto di Dio: la Filocalia, che significa in greco l’amore della bellezza. Gli spiega quella che si chiama la preghiera di Gesù.

Ecco quel che gli dice lo starec: La preghiera interiore e perpetua di Gesù consiste nell’invocare incessantemente, senza interruzione, il nome divino di Gesù Cristo con le labbra, la mente e il cuore, immaginando la sua presenza costante e chiedendo il suo perdono, in ogni occupazione, in ogni luogo. in ogni tempo, persino nel sonno. Essa si esprime con queste parole: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!». Chi si abitua a questa invocazione ne riceve grande consolazione, e sente l’esigenza di recitare sempre questa preghiera, tanto che non può più farne a meno, ed essa stessa fluisce spontaneamente in lui. Adesso hai capito che cosa sia la preghiera continua?

E il Pellegrino esclama colmo di gioia: «Per amor di Dio, insegnatemi come arrivarci!».

Lo Starec prosegue:
«Impareremo la preghiera leggendo questo libro, che si intitola Filocalia». Questo libro raccoglie testi tradizionali della spiritualità ortodossa.

Lo starec sceglie un brano di san Simeone il Nuovo Teologo:

Siedi in silenzio e appartato; china il capo, chiudi gli occhi; respira più lentamente, guarda con l’immaginazione dentro il cuore, porta la mente, cioè il pensiero, dalla testa al cuore. Mentre respiri, di’: «Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore», sottovoce con le labbra, oppure solo con la mente. Cerca di scacciare i pensieri, sii tranquillo e paziente, e ripeti spesso questo esercizio.

Dopo avere incontrato questo monaco, il Pellegrino russo legge altri autori e continua ad andare di monastero in monastero, da un luogo di preghiera a un altro, facendo ogni specie di incontri lungo il cammino e approfondendo quel suo desiderio di pregare incessantemente. Egli conta il numero di volte che pronunzia l’invocazione. Fra gli ortodossi la corona del rosario è costituita di nodi (cinquanta o cento nodi). È l’equivalente del rosario, ma qui non vi sono il Padre nostro e l’Ave Maria rappresentati da grani grossi e piccoli, più o meno distanziati. I nodi sono invece della stessa dimensione e disposti uno dopo l’altro, con l’unico intento della ripetizione del nome del Signore, pratica che si acquisisce progressivamente.
Ecco come il nostro Pellegrino russo ha scoperto la preghiera continua, a partire da una ripetizione molto semplice, tenendo conto del ritmo della respirazione e del cuore, cercando di uscire dalla mente, per entrare nel cuore profondo, quietare il proprio essere interiore e rimanere così in preghiera permanente.


Questa storia del Pellegrino contiene tre insegnamenti che alimentano la nostra ricerca.

Il primo pone l’accento sulla ripetizione. Non abbiamo bisogno di andare a cercare dei mantrafra gli indù, noi ne abbiamo nella tradizione cristiana con la ripetizione del nome di Gesù. In numerose tradizioni religiose, la ripetizione di un nome o di una parola in rapporto con il divino o il sacro è il luogo di concentrazione e di acquietamento per la persona e di relazione con l’invisibile. Allo stesso modo, gli ebrei ripetono più volte al giorno lo Shemà (la proclamazione di fede che comincia con «Ascolta, o Israele…», Dt, 6,4). La ripetizione è stata ripresa dal rosario cristiano (che proviene da san Domenico, nel XII secolo). Questa idea di ripetizione è dunque classica anche nelle tradizioni cristiane.

Il secondo insegnamento verte sulla presenza al corpo, che si riallaccia ad altre tradizioni cristiane. Nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyola, che è stato all’origine della spiritualità dei gesuiti, segnala l’interesse di pregare al ritmo del cuore o della respirazione, dunque l’importanza di un’attenzione al corpo (cfr. Esercizi spirituali, 258-260). In questa maniera di pregare, si prendono le distanze riguardo a una riflessione intellettuale, a un approccio mentale, per entrare in un ritmo più affettivo, perché la ripetizione non è solamente esteriore, vocale.

Il terzo insegnamento si riferisce all’energia che si sprigiona nella preghiera. Questo concetto di energia – che si incontra spesso attualmente – è molte volte ambiguo, polisemico (vale a dire che ha significati differenti). Trattandosi della tradizione nella quale si inscrive il Pellegrino russo, si parla di un’energia spirituale la quale si trova nel nome stesso di Dio che viene pronunziato. Questa energia non rientra nella categoria dell’energia vibratoria, come nella pronuncia della sacra sillaba OM, che è materiale. Sappiamo che il primo mantra, il mantra originario per l’induismo è la sillaba mistica OM. È la sillaba iniziale, che viene dalle profondità dell’uomo, nella forza dell’espirazione. Nel nostro caso, si tratta di energie increate, l’energia divina stessa, che viene nella persona e la pervade quando essa pronunzia il nome di Dio. L’insegnamento della Filocalia permette dunque di ricollegarsi all’esperienza della ripetizione, del respiro e del corpo, dell’energia, ma assunta in una tradizione cristiana in cui non si tratta di un’energia cosmica, ma spirituale.

Ritorniamo alla trasmissione della tradizione della preghiera del cuore, dell’invocazione incessante del nome di Gesù, che si localizza nelle profondità del cuore. Essa risale alte tradizioni dei Padri greci del Medioevo bizantino: Gregorio Palamàs, Simeone il Nuovo Teologo, Massimo il Confessore, Diadoco di Fotice; e ai Padri del deserto dei primi secoli: Macario ed Evagrio. Alcuni la riallacciano persino agli apostoli… (nella Filocalia). Questa preghiera si è sviluppata soprattutto nei monasteri del Sinai, al confine dell’Egitto, a partire dal VI secolo, poi sul monte Athos nel XIV secolo. Lì vivono ancora centinaia di monaci completamente isolati dal mondo, sempre immersi in questa preghiera del cuore. In alcuni monasteri si continua a mormorarla, come un ronzio di alveare, in altri la si dice interiormente, in silenzio. La preghiera del cuore fu introdotta in Russia verso la metà del XIV secolo. Il grande mistico san Sergio di Radonez, il fondatore del monachesimo russo, la conosceva. Altri monaci in seguito l’hanno fatta conoscere nel XVIII secolo, poi essa si è diffusa progressivamente al di fuori dei monasteri, grazie alla pubblicazione della Filocalia, nel 1782. Infine, la diffusione dei Racconti del Pellegrino russo a partire dalla fine del XIX secolo l’ha resa popolare.

La preghiera del cuore ci permetterà di progredire nella misura in cui possiamo appropriarci l’esperienza che abbiamo cominciato, in una prospettiva sempre più cristiana. In quello che abbiamo finora imparato, abbiamo insistito soprattutto sull’aspetto affettivo e corporeo della preghiera e della ripetizione; adesso, facciamo ancora un altro passo. Questo modo di riappropriarsi un tale procedimento non implica un giudizio o una disistima delle altre tradizioni religiose (come il tantrismo, lo yoga…). Abbiamo qui l’occasione di collocarci nel cuore della tradizione cristiana, a proposito di un aspetto che si è tentato di ignorare nel secolo scorso nelle Chiese d’occidente. Gli ortodossi sono rimasti più vicini a questa pratica, mentre la tradizione cattolica occidentale recente si è evoluta piuttosto verso un approccio razionale e istituzionale del cristianesimo. Gli ortodossi sono rimasti più vicini all’estetica, a ciò che si prova, alla bellezza e alla dimensione spirituale, nel senso dell’attenzione all’opera dello Spirito Santo nell’umanità e nel mondo. Abbiamo visto che la parola esicasmo significa quiete, ma essa rimanda anche alla solitudine, al raccoglimento.

La potenza del Nome

Perché nella mistica ortodossa si dice che la preghiera del cuore è al centro dell’ortodossia? Tra l’altro, perché l’invocazione incessante del nome di Gesù si collega alla tradizione ebraica, per la quale il nome di Dio è sacro, poiché c’è una forza, una potenza particolare in questo nome. Secondo questa tradizione è proibito pronunziare il nome di Jhwh. Quando gli ebrei parlano del Nome, dicono: il Nome o il tetragramma, le quattro lettere. Essi non lo pronunziavano mai, salvo una volta l’anno, al tempo in cui il tempio di Gerusalemme esisteva ancora. Soltanto il sommo sacerdote aveva il diritto di pronunziare il nome di Jhwh, nel santo dei santi. Ogni volta che nella Bibbia si parla del Nome, si parla di Dio. Nel nome stesso, c’è una presenza straordinaria di Dio.

Si ritrova l’importanza del nome negli Atti degli Apostoli, il primo libro della tradizione cristiana dopo i Vangeli: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21). Il nome è la persona, il nome di Gesù salva, guarisce, scaccia gli spiriti impuri, purifica il cuore. Ecco che cosa dice a questo proposito un sacerdote ortodosso: «Portate costantemente nel cuore il dolcissimo nome di Gesù; il cuore è infiammato dal richiamo incessante di questo nome diletto, di un ineffabile amore per lui».

Questa preghiera si fonda sull’esortazione a pregare sempre e che abbiamo ricordato a proposito del Pellegrino russo. Tutte le sue parole provengono dal Nuovo Testamento. È il grido del peccatore che chiede aiuto al Signore, in greco: «Kyrie, eleison». Questa formula è utilizzata anche nella liturgia cattolica. E ancora oggi viene recitata decine di volte negli uffizi ortodossi greci. La ripetizione del «Kyrie, eleison» è dunque importante nella liturgia orientale.

Per addentrarci nella preghiera del cuore, non siamo obbligati a recitare tutta la formula: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me (peccatore)»; possiamo scegliere un’altra parola che ci commuove. Bisogna tuttavia comprendere l’importanza della presenza del nome di Gesù, quando vogliamo penetrare a fondo il significato di questa invocazione. Nella tradizione cristiana, il nome di Gesù (che in ebraico si dice Jehoshua) significa: «Dio salva». È un modo di rendere presente il Cristo nella nostra vita. Ritorneremo a parlarne. Per il momento, è possibile che un’altra espressione ci si addica meglio. L’importante è prendere l’abitudine di ripetere regolarmente questa espressione, come un segno di tenerezza che si esprime a qualcuno. Quando siamo avviati su un cammino spirituale e accettiamo che sia un cammino di relazione con Dio, scopriamo dei nomi particolari che rivolgiamo a Dio, nomi che amiamo in modo particolare. Sono talvolta nomi affettuosi, pieni di tenerezza, che possono essere detti secondo la relazione che si ha con lui. Per alcuni, sarà Signore, Padre; per altri, sarà Papà, oppure Diletto… Una sola parola può bastare in questa preghiera; la cosa principale è non cambiare troppo spesso, ripeterla regolarmente, e che sia per chi la pronuncia una parola che lo radica nel suo cuore e nel cuore di Dio.

Alcuni di noi possono essere riluttanti di fronte alle parole «pietà» e «peccatore». La parola pietà disturba perché ha preso spesso una connotazione doloristica o umiliante. Ma se la consideriamo nel suo primo significato di misericordia e di compassione, la preghiera può anche voler dire: «Signore, guardami con tenerezza». La parola peccatore evoca il riconoscimento delle nostre povertà. Non vi è in ciò nessun senso di colpa incentrato su una lista di peccati. Il peccato è piuttosto uno stato in cui percepiamo fino a che punto facciamo fatica ad amare e a lasciarci amare come vorremmo. Peccare significa «fallire il bersaglio»… Chi non riconosce di fallire il bersaglio più spesso di quanto vorrebbe? Rivolgendoci a Gesù, gli chiediamo di avere compassione delle difficoltà che abbiamo a vivere al livello del cuore profondo, nell’amore. È una richiesta di aiuto per liberare la sorgente interiore.

In che modo si fa questa respirazione del Nome, del nome di Gesù? Come racconta il Pellegrino russo, si ripete l’invocazione un certo numero di volte utilizzando il rosario a nodi. Il fatto di recitarla cinquanta o cento volte sul rosario permette di sapere a che punto si è, ma non è questa certamente la cosa più importante. Quando lo starec ha indicato al Pellegrino russo come doveva procedere, gli ha detto: «Tu cominci dapprima con mille volte e poi duemila volte…». Con il rosario, ogni volta che si dice il nome di Gesù, si fa scorrere un nodo. Questa ripetizione fatta sui nodi permette di fissare il pensiero, ricorda quello che si sta facendo e aiuta così a rimanere consapevoli del procedimento di preghiera.

Respirare lo Spirito Santo

Accanto al rosario, il lavoro della respirazione ci dà il segno migliore di riferimento. Si ripetono queste parole al ritmo dell’inspirazione, poi dell’espirazione in modo da farle penetrare progressivamente nel nostro cuore, come vedremo negli esercizi pratici. In questo caso, i nodi non sono necessari. In ogni modo, anche in questo, non cerchiamo di fare prodezze. Appena ci inoltriamo su un cammino di preghiera con l’obiettivo di ottenere risultati visibili, seguiamo lo spirito del mondo e ci allontaniamo dalla vita spirituale. Nelle tradizioni spirituali più profonde, siano esse giudaiche, induiste, buddhiste o cristiane, esiste una libertà in quanto ai risultati, perché il frutto è già nel cammino. Abbiamo dovuto farne già l’esperienza. Oseremmo forse affermare: «Sono arrivato»? Tuttavia, senza dubbio, raccogliamo già buoni frutti. Lo scopo è di arrivare a una libertà interiore sempre più grande, a una comunione sempre più profonda con Dio. Ciò viene dato impercettibilmente, progressivamente. Il solo fatto di essere in cammino, di essere attenti a quel che viviamo, è già il segno di una continua presenza al presente, nella libertà interiore. Il resto, non abbiamo bisogno di ricercarlo: è dato in sovrappiù.

Gli antichi monaci dicono: soprattutto non bisogna esagerare, non cercare di ripetere il Nome fino a inebetirsi completamente; lo scopo non è quello di andare in trance. Esistono altre tradizioni religiose che propongono metodi per arrivarci, accompagnando il ritmo delle parole con un’accelerazione della respirazione. Ci si può aiutare battendo sui tamburi, o con movimenti rotatori del tronco come in certe confraternite sufi. Si provoca così una iperventilazione, dunque un’iperossigenazione del cervello che determina una modificazione dello stato di coscienza. La persona che partecipa a queste trances è come trascinata dagli effetti dell’accelerazione della sua respirazione. Il fatto di essere in molti a dondolarsi insieme accelera il processo. Nella tradizione cristiana, quel che viene ricercato è la pace interiore, senza nessuna manifestazione particolare. Le Chiese sono sempre state prudenti a proposito delle esperienze mistiche. Normalmente, nel caso dell’estasi, la persona quasi non si muove, ma ci possono essere leggeri movimenti esterni. Non si ricerca nessuna agitazione né eccitazione, la respirazione serve unicamente da supporto e da simbolo spirituale alla preghiera.

Perché collegare il Nome al respiro? Come abbiamo visto, nella tradizione giudeo-cristiana, Dio è il soffio dell’uomo. Quando l’uomo respira, riceve una vita che gli viene data da un Altro. L’immagine della discesa della colomba – simbolo dello Spirito Santo – su Gesù al momento del battesimo è considerata nella tradizione cistercense come il bacio del Padre a suo Figlio. Nella respirazione, sì riceve il soffio del Padre. Se in quel momento, in questo respiro, si pronuncia il nome del Figlio, sono presenti il Padre, il Figlio e lo Spirito. Nel Vangelo di Giovanni si legge: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23). La respirazione al ritmo dei nome di Gesù dà un senso particolare all’inspirazione. «La respirazione serve da supporto e da simbolo alla preghiera. “Il nome di Gesù è un profumo che si effonde” (cfr. Cantico dei cantici, 1,4). Il soffio di Gesù è spirituale, guarisce, scaccia i demoni, comunica lo Spirito Santo (Gv 20,22). Lo Spirito Santo è Soffio divino (Spiritus, spirare), spirazione di amore in seno al mistero trinitario. La respirazione di Gesù, come il battito del suo cuore, doveva essere incessantemente legata a questo mistero di amore, come pure ai sospiri della creatura (Mc 7,34 e 8,12) e alle “aspirazioni” che ogni cuore umano porta in sé. È lo Spirito stesso che prega per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)» (Serr J.).

Ci si potrebbe basare anche sul battito del cuore per ritmare la recitazione. E’ questa la tradizione più antica per la preghiera del cuore, ma ci rendiamo conto che ai nostri giorni, con gli attuati ritmi di vita, non abbiamo più il ritmo cardiaco che aveva il contadino o il monaco nella sua cella. Inoltre, bisogna fare attenzione a non concentrarsi esageratamente su quest’organo. Siamo molto spesso sotto pressione, dunque non è consigliabile pregare al ritmo dei battiti del cuore. Certe tecniche in rapporto con il ritmo del cuore possono essere pericolose. E’ meglio attenersi alla profonda tradizione del respiro, ritmo biologico fondamentale quanto quello del cuore e che ha anche il significato mistico di una comunione con una vita che è data e accolta nella respirazione. Negli Atti degli Apostoli san Paolo dice: «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28) Secondo questa tradizione noi siamo dunque creati ad ogni istante, siamo rinnovati; questa vita viene da lui e un modo di accoglierla è di respirare coscientemente.

Gregorio il Sinaita diceva: «Invece di respirare lo Spirito Santo, noi siamo riempiti dal respiro degli spiriti malvagi» (sono le cattive abitudini, le «passioni», tutto ciò che rende complicata la nostra vita quotidiana). Fissando la mente sulla respirazione (come abbiamo fatto finora), essa si quieta, e noi sentiamo una distensione fisica, psicologica, morale. «Respirando lo Spirito», nell’articolazione del Nome, possiamo trovare il riposo del cuore, e questo corrisponde al procedimento dell’esicasmo. Esichio di Batos scrive: «L’invocazione del nome di Gesù, quando è accompagnata da un desiderio pieno di dolcezza e di gioia, riempie il cuore di gioia e di serenità. Saremo allora ricolmi della dolcezza di sentire e di provare come un incanto questa esultanza beata, perché cammineremo nella hesychia del cuore con il dolce piacere e le delizie di cui essa riempie l’anima».

Ci si libera dall’agitazione del mondo esterno, si calma la dispersione, la diversità, la corsa frenetica, perché noi tutti siamo spesso sollecitati in maniera molto faticosa. Quando arriviamo, grazie a questa pratica, a una maggiore presenza a noi stessi, in profondità, cominciamo a sentirci bene con noi stessi, nel silenzio. Dopo un certo tempo, scopriamo che siamo con un Altro, perché amare è essere abitati e lasciarsi amare è lasciarsi abitare. Ritroviamo quello che dicevo a proposito della trasfigurazione: il cuore, la mente e il corpo ritrovano la loro unità originaria. Siamo presi nel movimento della metamorfosi, della trasfigurazione del nostro essere. E’ questo un tema caro all’ortodossia. Il nostro cuore, la nostra mente e il nostro corpo si quietano e trovano la loro unità in Dio.

CONSIGLI PRATICI - Trovare la distanza giusta

La nostra prima cura, quando ci fermiamo per imparare la «preghiera di Gesù», sarà di ricercare il silenzio della mente, di evitare ogni pensiero e fissarsi nelle profondità del cuore. Per questo il lavoro sul respiro è di grande aiuto.


Come sappiamo, servendoci delle parole: «Io mi lascio andare, io mi dono, io mi abbandono, io mi ricevo» il nostro scopo non è di arrivare alla vacuità come nella tradizione zen, per esempio. Si tratta di liberare uno spazio interiore nel quale possiamo fare l’esperienza di essere visitati e abitati. Questo procedimento non ha nulla di magico, è un’apertura del cuore a una presenza spirituale dentro di sé. Non è un esercizio meccanico o una tecnica psicosomatica; possiamo anche sostituire queste parole con la preghiera del cuore. Nel ritmo delta respirazione, si può dire nell’inspirazione: «Signore Gesù Cristo», e nell’espirazione: «Abbi pietà di me». In quel momento, io accolgo il respiro, la tenerezza, la misericordia che mi sono dati come un’unzione dello Spirito.

Scegliamo un luogo silenzioso, quietiamoci, invochiamo lo Spirito perché ci insegni a pregare. Possiamo immaginare il Signore vicino a noi o in noi, con la fiduciosa certezza che egli non ha altro desiderio che di colmarci delta sua pace. All’inizio, possiamo limitarci a una sillaba, a un nome: Abbà (Padre), Gesù, Effathà (apriti, rivolto a noi stessi), Marana-tha (vieni, Signore), Eccomi, Signore, ecc. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula, che deve essere breve. Giovanni Climaco consiglia: «che la vostra preghiera ignori ogni moltiplicazione: una sola parola è bastata al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono di Dio.. La prolissità nella preghiera riempie spesso di immagini e distrae, mentre spesso una sola parola (monologia) favorisce il raccoglimento”.

Prendiamola con calma sul ritmo della nostra respirazione. La ripetiamo in piedi, seduti o coricati, trattenendo il respiro per quanto è possibile, per non respirare a un ritmo troppo rapido. Se restiamo in apnea per un pò di tempo, la nostra respirazione rallenta. Diventa più distanziata, ma siamo ossigenati respirando attraverso il diaframma. Il respiro raggiunge allora un’ampiezza tale che si ha bisogno di respirare meno spesso. Inoltre, come scrive Teofane il Recluso: «Non preoccupatevi del numero delle preghiere da recitare. Abbiate cura unicamente che la preghiera scaturisca dal vostro cuore, zampillante come una sorgente di acqua viva. Allontanate completamente dalla vostra mente l’idea di quantità». Anche in questo caso, ciascuno deve trovare la formula che gli si addice: le parole da usare, il ritmo del respiro, la durata della recitazione. All’inizio, la recitazione sarà fatta oralmente; a poco a poco, non avremo più bisogno di pronunziarla con le labbra nè di utilizzare un rosario (qualsiasi rosario può andar bene, se non si ha quello fatto di nodi di lana). Un automatismo regolerà il movimento della respirazione; la preghiera si semplificherà e giungerà fino al nostro sub-conscio per pacificarlo. Il silenzio ci pervaderà dall’interno.

In questa respirazione del Nome, il nostro desiderio si esprime e si approfondisce; a poco a poco entriamo nella pace dell’hesychia. Situando la mente nel cuore – e possiamo localizzare un punto fisicamente, se questo ci aiuta, nel nostro petto, o nel nostro hara (cfr. tradizione zen) -, noi invochiamo il Signore Gesù incessantemente; cercando di fare in modo di allontanare tutto ciò che può distrarci. Quest’apprendimento richiede tempo e non bisogna cercare un risultato rapido. C’è dunque da fare uno sforzo per rimanere in una grande semplicità e in una grande povertà, accogliendo quello che viene dato. Ogni volta che le distrazioni ritornano, concentriamoci di nuovo sul respiro e sulla parola.

Quando avete preso questa abitudine, quando camminate, quando vi sedete, potete riprendere la vostra respirazione. Se a poco a poco questo nome di Dio, qualunque sia il nome che gli date, è associato al suo ritmo, sentirete che la pace e l’unità della vostra persona cresceranno. Quando qualcuno vi provoca, se provate un sentimento di collera o di aggressività, se sentite che state per non controllarvi più o se siete tentati di commettere atti che vanno contro le vostre convinzioni, riprendete la respirazione del Nome. Quando sentite un impulso interiore che si oppone all’amore e alla pace, questo sforzo di ritrovarvi nelle vostre profondità mediante il respiro, mediante la presenza a voi stessi, mediante la ripetizione del Nome, vi rende vigilanti e attenti al cuore. Questo vi può permettere di calmarvi, di ritardare la vostra risposta e di darvi il tempo di trovare la distanza giusta riguardo a un avvenimento, a voi stessi, a qualcun altro. Può essere un metodo molto concreto per placare i sentimenti negativi, che sono talvolta un veleno per la vostra serenità interiore e impediscono una relazione in profondità con gli altri.

LA PREGHIERA DI GESÙ

La preghiera di Gesù è chiamata preghiera del cuore perché, nella tradizione biblica, al livello del cuore si trova il centro dell’uomo e della sua spiritualità. Il cuore non è semplicemente l’affettività. Questa parola rimanda alla nostra identità profonda. Il cuore è anche il luogo della saggezza. Nella maggior parte delle tradizioni spirituali, esso rappresenta un luogo e un simbolo importanti; talvolta è collegato al tema della grotta o al fiore del loto, o alla cella interiore del tempio. A questo proposito, la tradizione ortodossa è particolarmente vicina alle fonti bibliche e semitiche. «Il cuore è il signore e il re di tutto l’organismo corporeo», dice Macario, e «quando la grazia si impadronisce dei pascoli del cuore, essa regna su tutte le membra e su tutti i pensieri; perché lì è l’intelligenza, lì si trovano i pensieri dell’anima, da lì essa attende il bene». In questa tradizione, il cuore è al «centro dell’essere umano, la radice delle facoltà dell’intelletto e della volontà, il punto da cui proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale. È la sorgente, oscura e profonda, da cui scaturisce tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo e mediante la quale questi è vicino e comunica con la Sorgente della vita». Dire che nella preghiera bisogna passare dalla testa al cuore, non significa che testa e cuore si oppongano. Nel cuore, c’è ugualmente il desiderio, la decisione, la scelta dell’azione. Nel linguaggio corrente, quando si dice che una persona è un uomo o una donna di gran cuore, si rimanda alla dimensione affettiva; ma quando si parla di «avere un cuor da leone» si accenna al coraggio e alla determinazione.

La preghiera di Gesù, con il suo aspetto respiratorio e spirituale, ha lo scopo di far «scendere la testa nel cuore»: si arriva così all’intelligenza del cuore. «E’ bene scendere dal cervello nel cuore – dice Teofane il Recluso -. Per il momento non ci sono in voi che riflessioni tutte cerebrali su Dio, ma Dio stesso rimane all’esterno». È stato detto che la conseguenza della rottura con Dio è una specie di disintegrazione della persona, una perdita dell’armonia interiore. Per riequilibrare la persona con tutte le sue dimensioni, il procedimento della preghiera del cuore mira a collegare la testa e il cuore, perché «i pensieri turbinano come fiocchi di neve o sciami di moscerini in estate». Possiamo quindi raggiungere una comprensione molto più profonda della realtà umana e spirituale.

L’illuminazione cristiana

Poiché pronunciare il nome di Gesù libera il suo soffio in noi, l’effetto più importante della preghiera del cuore è l’illuminazione, che non è una manifestazione sentita fisicamente, benché possa avere effetti sul corpo. Il cuore conoscerà il calore spirituale, la pace, la luce, così bene espresse nella liturgia ortodossa. Le Chiese d’Oriente sono decorate di icone, ciascuna con il suo lumicino che vi si riflette, segno di una presenza misteriosa. Mentre nella teologia mistica occidentale si è insistito, tra l’altro, sull’esperienza della notte oscura (con le tradizioni carmelitane, come quella di san Giovanni della Croce), in Oriente sono messe in risalto l’illuminazione, la luce della trasfigurazione. I santi ortodossi sono trasfigurati più che se ricevessero le stigmate (Nella tradizione cattolica alcuni santi come Francesco d’Assisi hanno ricevuto nella loro carne le tracce delle piaghe della crocifissione, unendosi così alla sofferenza del Cristo crocifisso). Si parla della luce taborica, perché sul monte Tabor, Gesù è stato trasfigurato. La crescita spirituale è un cammino di trasfigurazione progressiva. E’ la luce stessa di Dio che finisce col riflettersi sul viso dell’uomo. Per questo siamo chiamati a diventare noi stessi icone della tenerezza di Dio, sull’esempio di Gesù. Nella misura in cui ritroviamo la nostra sorgente nascosta, a poco a poco la luce interiore traspare nel nostro sguardo. C’è una grazia di commossa partecipazione che imprime una grande dolcezza nello sguardo e sul viso dei religiosi dell’Oriente.

È lo Spirito Santo che realizza l’unità della persona. Lo scopo ultimo della vita spirituale è la deificazione dell’essere umano secondo la tradizione ortodossa, vale a dire una trasformazione interiore che ristabilisce la somiglianza ferita dalla rottura con Dio. L’uomo diventa sempre più vicino a Dio, non con le sue forze, ma per la presenza dello Spirito che favorisce la preghiera del cuore. C’è una grande differenza tra le tecniche di meditazione, in cui si cerca di raggiungere un certo stato di coscienza attraverso sforzi personali, e un metodo di preghiera cristiana. Nel primo caso, il lavoro su se stessi – che è certamente necessario per ogni cammino spirituale – è realizzato unicamente da se stessi, eventualmente con un aiuto umano esterno, per esempio quello di un maestro. Nel secondo caso, anche se ci si ispira ad alcune tecniche, l’approccio è vissuto in uno spirito di apertura e di accoglienza a una Presenza trasformante. A poco a poco, grazie alla pratica della preghiera del cuore, l’uomo ritrova un’unità profonda. Quanta più si radica questa unità, tanto meglio egli può entrare nella comunione con Dio: è già un annuncio della risurrezione! Tuttavia, non bisogna farsi illusioni. Non c’è nulla di automatico né di immediato in questo procedimento. Non basta essere pazienti, è ugualmente importante accettare di essere purificati, vale a dire riconoscere le oscurità e le deviazioni in noi che impediscono l’accoglimento della grazia. La preghiera del cuore stimola un atteggiamento di umiltà e di pentimento che ne condiziona l’autenticità; è accompagnata da una volontà di discernimento e di vigilanza interiore. Di fronte alla bellezza e all’amore di Dio, l’uomo prende coscienza del suo peccato ed è invitato a incamminarsi sulla via della conversione.

Che cosa dice dell’energia divina questa tradizione? Il corpo può risentire anch’esso fin da ora gli effetti dell’illuminazione della risurrezione. Fra gli ortodossi esiste un dibattito sempre attuale a proposito delle energie. Sono create o increate? Sono l’effetto di un’azione diretta di Dio sull’uomo? Di quale natura è la deificazione? In che modo Dio, trascendente e inaccessibile nella sua essenza, potrebbe comunicare le sue grazie all’uomo, al punto di «deificarlo» con la sua azione? L’interesse dei nostri contemporanei per la questione dell’energia obbliga a soffermarsi brevemente su tale domanda. Gregorio Palamàs parla di una «partecipazione» a qualche cosa tra il cristiano e Dio. Questo qualcosa, sono le “energie” divine, paragonabili ai raggi del sole che apportano luce e calore, senza essere il sole nella sua essenza, e che noi tuttavia chiamiamo: sole. Sono queste energie divine che agiscono sul cuore per ricrearci a immagine e somiglianza. Con ciò, Dio si dona all’uomo senza cessare di essere trascendente a lui. Attraverso questa immagine, vediamo come, mediante un lavoro sul respiro e sulla ripetizione del Nome, possiamo accogliere l’energia divina e permettere che si realizzi progressivamente in noi una trasfigurazione dell’essere profondo.

Il Nome che guarisce

A proposito del pronunciare il Nome, è importante non porsi in un atteggiamento che rientrerebbe nell’ambito della magia. La nostra è una prospettiva di fede in un Dio che è il pastore del suo popolo e che non vuole perdere nessuna delle sue pecore. Chiamare Dio con il suo nome vuol dire aprirsi alla sua presenza e alla potenza del suo amore. Credere nella forza dell’evocazione del Nome, significa credere che Dio è presente nelle nostre profondità e aspetta solamente un segno da parte nostra per colmarci della grazia di cui abbiamo bisogno. Non dobbiamo dimenticare che la grazia è sempre offerta. Il problema viene da noi che non la chiediamo, non l’accogliamo, oppure non siamo capaci di riconoscerla quando essa opera nella nostra vita o in quella degli altri. La recitazione del Nome è dunque un atto di fede in un amore che non cessa di donarsi, un fuoco che non dice mai: «Basta!».

Adesso forse comprendiamo meglio come, oltre al lavoro che abbiamo iniziato sul corpo e il respiro, è possibile, per quelli che lo desiderano, introdurre la dimensione della ripetizione del Nome. Così, a poco a poco, lo Spirito si unisce alla nostra respirazione. In concreto, dopo un apprendimento più o meno lungo, quando abbiamo un momento di calma, quando camminiamo per strada o quando stiamo nella metropolitana, se entriamo nella respirazione profonda, spontaneamente, il nome di Gesù può visitarci e ricordarci chi siamo noi, figli diletti del Padre.

Attualmente, si ritiene che la preghiera del cuore possa sollecitare il subcosciente e attuare in esso una forma di liberazione. Infatti, lì giacciono dimenticate realtà cupe, difficili e angosciose. Quando questo Nome benedetto pervade il subcosciente, scaccia gli altri nomi, che sono forse distruttori per noi. Ciò non ha nulla di automatico e non sostituirà necessariamente un procedimento psicanalitico o psicoterapeutico; ma nella fede cristiana, questa visione dell’opera dello Spirito fa parte dell’incarnazione: nel cristianesimo, lo spirito e il corpo sono inseparabili. Grazie alla nostra comunione con Dio, che è relazione, pronunciare il suo Nome può liberarci dalle oscurità. Si legge nei Salmi che quando un povero grida, Dio risponde sempre (Sal 31,23; 72,12). E l’amata del Cantico dei Cantici dice: «Io dormivo, ma il mio cuore era desto» (Ct 5,2). Possiamo qui pensare all’immagine della mamma che dorme, ma sa che il suo bimbo non sta molto bene: lei si sveglierà al minimo gemito. È una presenza dello stesso genere che si può sperimentare nei momenti importanti della vita amorosa, della vita parentale, filiate. Se amare è essere abitati, lo stesso può dirsi anche per la relazione che Dio intrattiene con noi. Scoprirlo e viverne è una grazia da chiedere.

Quando prepariamo un incontro importante, ci pensiamo, ci predisponiamo ad esso, ma non possiamo assicurare che sarà un incontro riuscito. Ciò non dipende del tutto da noi, ma dipende anche dall’altro. Nell’incontro con Dio, quel che dipende da noi è preparare il nostro cuore. Anche se non conosciamo nè il giorno nè l’ora, la nostra fede ci assicura che l’Altro verrà. A tal fine è necessario che noi ci poniamo già in un approccio di fede, anche se è una fede ai primi passi. Avere l’audacia di sperare che effettivamente c’è qualcuno che viene a noi, anche se non sentiamo nulla! È un mettersi continuamente in presenza, cosi come respiriamo ad ogni istante, e il nostro cuore batte senza fermarsi. Il nostro cuore e il nostro respiro sono vitali per noi, così questo mettersi in presenza diventa vitale da un punto di vista spirituale. Progressivamente, tutto diventa vita, vita in Dio. Certamente, non lo sperimentiamo in permanenza, ma in certi momenti possiamo intuirlo Quei momenti ci incoraggiano, quando abbiamo l’impressione di perdere tempo nella preghiera, cosa che, senza dubbio, ci accade spesso…

Attendere l’inatteso

Noi possiamo attingere dalla nostra propria esperienza di relazione, dal ricordo dei nostri stupori davanti a ciò che abbiamo scoperto di bello in noi e negli altri. La nostra esperienza ci rivela l’importanza della capacità di riconoscere la bellezza sul nostro cammino. Per alcuni sarà la natura, per altri l’amicizia; in poche parole, tutto ciò che ci fa crescere e ci fa uscire dalla banalità, dal tran tran quotidiano. Attendere l’inatteso ed essere ancora capaci di meravigliarsi! «Attendo l’inatteso», mi diceva un giorno un giovane in cerca di vocazione, incontrato in un monastero: allora gli ho parlato del Dio delle sorprese. È un cammino che richiede tempo. Ricordiamoci che abbiamo detto che la risposta è già presente nel cammino stesso. Siamo tentati di porci la domanda: quando arriverò e quando avrò la risposta? L’importante è esserci messi in cammino, bevendo ai pozzi che incontriamo, pur sapendo che ci vorrà molto tempo per arrivare. L’orizzonte si allontana quando ci si avvicina alla montagna, ma c’è la gioia del cammino che accompagna l’aridità della fatica, c’è la vicinanza dei compagni di cordata. Non rimaniamo soli, siamo già rivolti verso la rivelazione che ci aspetta sulla vetta. Quando siamo consapevoli di questo, diventiamo pellegrini dell’assoluto, pellegrini di Dio, senza ricerca del risultato.

È molto difficile per noi occidentali non mirare all’efficacia immediata. Nel celebre libro indù Bhagavadgita, Krishna dice che bisogna lavorare senza desiderare il frutto della nostra fatica. I buddhisti aggiungono che bisognerebbe liberarsi dal desiderio che è illusione, per raggiungere l’illuminazione. Molto più tardi, in Occidente, nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyola insisterà sull’«indifferenza», che consiste per lui nel conservare una giusta libertà interiore riguardo a una decisione importante, finché il discernimento conferma la scelta opportuna. Tuttavia, come abbiamo visto, nel cristianesimo il desiderio rimane una realtà importante per il cammino spirituale. Esso unifica nell’impulso che ci fa uscire da noi stessi in direzione di una pienezza, e tutto questo in una grande povertà. Infatti, il desiderio ci produce un vuoto nell’anima, perché possiamo desiderare solo ciò che non abbiamo ancora, e dà il suo slancio alla speranza.

Questo ci aiuta a pensare «giusto», perché il nostro pensiero è anche un pensiero del cuore, e non soltanto un esercizio unicamente intellettuale. La rettitudine del pensiero illuminato dal cuore e gli stati del nostro cuore ci dicono qualcosa della rettitudine delle nostre relazioni. Lo vedremo presto nella tradizione ignaziana, quando parleremo della «mozione degli spiriti». Questa espressione di sant’Ignazio di Loyola è un altro modo di parlare degli stati del cuore, che ci dicono come noi viviamo la nostra relazione a Dio e agli altri. Noi occidentali viviamo soprattutto al livello dell’intelletto, della razionalità, e riduciamo talvolta il cuore all’emotività. Siamo allora tentati sia di neutralizzarlo, sia d’ignorarlo. Per alcuni di noi, quel che non si misura non esiste, ma questo è tuttavia in contraddizione con l’esperienza quotidiana, perché la qualità della relazione non si misura.

Nel mezzo della scissione dell’uomo, della dispersione causata dalla distrazione, la recitazione del Nome al ritmo della respirazione ci aiuta a ritrovare l’unità della testa, del corpo e del cuore. Questa preghiera continua può diventare veramente vitale per noi, nel senso che segue i nostri ritmi vitali. Vitale anche nel senso in cui, nei momenti nei quali la nostra vita è messa in discussione, minacciata, noi viviamo le esperienze più intense. Allora, possiamo chiamare il Signore con il suo Nome, renderlo presente e, a poco a poco, entrare nel movimento dell’illuminazione del cuore. Non siamo obbligati ad essere per questo dei grandi mistici. In certi momenti della nostra vita, possiamo scoprire che siamo amati in un modo assolutamente indescrivibile, che ci riempie di gioia. È questa una conferma di quel che c’è di più bello in noi e dell’esistenza dell’Essere amato; può durare soltanto pochi secondi, e diventare tuttavia come una pietra miliare sul nostro cammino. Se non c’è una causa precisa a questa gioia intensa, sant’Ignazio la chiama una «consolazione senza causa». Per esempio, quando non è una gioia che proviene da una buona notizia, da una promozione, da una gratificazione qualunque. Essa ci pervade all’improvviso, e questo è il segno che viene da Dio.

Pregare con prudenza e pazienza

La preghiera del cuore è stata oggetto di discussione e di sospetto a causa dei rischi di ripiegamento su se stessi e di illusione in quanto ai risultati. La ripetizione assidua di una formula può provocare una vera e propria vertigine.

La concentrazione esagerata sulla respirazione o sul ritmo del cuore può determinare malessere in certe persone fragili. C’è anche il rischio di confondere la preghiera con il desiderio di prodezze. Non si tratta di forzare per arrivare a un automatismo o a una corrispondenza con un certo movimento biologico. Perciò, in origine, questa preghiera veniva insegnata soltanto oralmente e la persona era seguita da un padre spirituale.

Ai giorni nostri, questa preghiera è di pubblico dominio; molti sono i libri che ne parlano e le persone che la praticano, senza un particolare accompagnamento. Ragione di più per non forzare nulla. Niente sarebbe più contrario al procedimento che il voler provocare un sentimento di illuminazione, confondendo l’esperienza spirituale di cui parla la Filocalia con una modificazione dello stato di coscienza. Non si deve trattare né di merito, nè di psicotecnica ricercata per se stessa.

Questa maniera di pregare non è adatta a tutti. Essa esige una ripetizione e un esercizio quasi meccanico all’inizio, che scoraggia alcune persone. Inoltre, sorge un fenomeno di stanchezza, perché il progresso è lento e, talvolta, ci si può trovare davanti a un vero e proprio muro che paralizza lo sforzo. Non bisogna dichiararsi vinti, ma, anche in questo caso, si tratta di essere pazienti con se stessi. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula. Ricordo che il progresso spirituale non può essere raggiunto unicamente mediante la pratica di un metodo, qualunque esso sia, ma implica un atteggiamento di discernimento e di vigilanza nella vita quotidiana.

martedì 24 settembre 2019

Due conti li sapete fare?

Costo del viaggio di un clandestino fino in Italia?
- 2.500 euro a testa

Il consumo di una "nave ONG"?
- 400.000 euro al mese.

Costo di un immigrato clandestino, al giorno?
- anche 167,81 euro al giorno (il che significa 5.000 euro al mese, dati della Corte dei Conti)

L'adozione di un bambino africano a distanza (vitto, alloggio, vestiario, scuola e cure mediche)?
- 30 euro al mese.

Quante vite di poveri - reali - potremmo salvare?

Fatevi due conti, miei cari amici "nuovi umanisti".

Basta l'aritmetica di base, livello seconda elementare.

E, aggiungo io, chiedetevi perchè le multinazionali della carità preferiscono chiedervi soldi per i corridoi umanitari o per le ONG invece che per le adozioni a distanza.

Ve lo dico io: perchè ci lucrano sopra, ci pagano il proprio personale e le proprie cooperative! E possono pretendere da voi, grazie ai sensi di colpa che vi sono indotti, molti più soldi che quei 30 euro al mese che salvano una vita!





mercoledì 18 settembre 2019

«Sono dunque, diventato vostro nemico dicendovi la verità?» (Gal 4, 16)

L'Apostolo stesso [Paolo], ricordando come si erano comportati verso di lui, per non sembrare dimentico dell'onore che gli avevano reso, attesta di essere stato accolto da loro come un angelo di Dio e che, se fosse stato possibile, si sarebbero tolti anche gli occhi per darglieli.
Ma tuttavia si avvicina alla pecora malata, alla pecora infetta per incidere la ferita, non risparmiando l'infezione. «Sono dunque», soggiunge infatti, «sono diventato vostro nemico dicendovi la verità?» (Gal 4, 16).
Egli prese bensì il latte delle pecore, come abbiamo ricordato poco fa, si rivestì della lana delle pecore, ma non trascurò le sue pecore. Perché egli non cercava i suoi interessi, ma quelli di Gesù Cristo.

Scrive quindi Agostino di Ippona (lettura dall'Ufficio di oggi) che l'Apostoli, il discepolo, chi porta Cristo, di fronte ad una malattia, ad un difetto, ad un peccato, ha come primo dovere quello di denunciarlo, di dire la Verità.

Senza Verità non c'è carità che tenga. Non è carità fare finta di nulla o mostrarsi addirittura accondiscendente con il peccato.

Occorre incidere la ferita, incidere il bubbone. Perchè il pus venga fuori e la ferita guarisca. Questa è anche scienza... magari i predicatori facessero così nei loro sermoni o nelle loro omelie. Invece di star lì col bilancino per evitare che qualche contribuente, cliente, esca dalla chiesa...


L'A- privativo: miseria di un prefisso

Articolo del Pastore Paolo Castellina



In italiano, così come nelle lingue d'origine greca e latina, la lettera A usata come prefisso a sostantivi o aggettivi, comporta un valore privativo, indica mancanza, privazione. Si consideri: abulico (inerte, privo di interessi), acefalo (senza testa, privo di autorità superiori), agnostico (chi non prende posizione riguardo a problemi religiosi, politici, sociali, ecc), anarchico (chi è insofferente rispetto all'ordine e all'autorità, ribelle), anestetico (ciò che tranquillizza o attenua un sentimento doloroso), apatico (che ha o dimostra apatia; indifferente, inattivo per mancanza di volontà e di desiderî), apolide (Persona emigrata all'estero, che non ha alcuna cittadinanza, perché priva di quella di origine e non in possesso di un'altra), atarassico (imperturbabile, indifferente), ateo (chi nega l'esistenza di Dio), e di formazione moderna, usato produttivamente davanti ad aggettivi: acritico (privo di senso critico, dogmatico; non vagliato criticamente), amorale, apolitico (chi è avverso o indifferente alla politica), areligioso ( che non è religioso, che prescinde da ogni religione), asessuale (privo di qualsiasi riferimento alla sessualità), e a confissi: afasia (di chi non è in grado di parlare), afono (di chi non "emette suoni"), raramente davanti a sostantivi: apartitico, asimmetria, e in sostantivi parasintetici: avitaminosi, analgesico (che attenua o elimina la sensibilità al dolore). Da notare la differenza fra il prefisso A- e il prefisso IN-. Ad esempio, la differenza fra amorale ed immorale: mentre il primo indica neutralità, passività e indifferenza (rispetto al problema religioso o alla morale), il secondo esprime avversione e più aperto contrasto (immorale è chi o ciò che si oppone alla moralità, che la viola e l’offende). È simile a anomia (indifferenza alla legge) e antinomia (opposizione alla legge). L'indifferenza è peggio che l'opposizione diretta!

Quanto vi ho riportato non è solo un esercizio lessicale. Per molte persone oggi (le incontriamo sovente anche fra molti di coloro che pubblicano sui social (di solito banalità) possono essere definiti "personalità da A privativo). Sono da distinguersi dai tipi "I avversativo). Difatti, sono indifferenti e non prendono mai posizione su niente. Prendere posizione su una quasiasi cosa per loro è sconveniente, rischioso. Preferiscono essere "neutrali" e lo considerano una virtù, anzi, l'unica virtù che si sentano di sostenere. Non pensano, o meglio, non vogliono pensare. Non hanno idee, e se ce l'hanno, le tengono per sé, non le esprimono. Se chiedi loro qualche opinione su qualcosa, preferiscono "non pronunciarsi". Non discutono, non vogliono "impegolarsi" in discussioni. Passano così per gente pacifica e tollerante, che "si fa i fatti suoi" e "non disturba". A loro interessa solo, di fatto, la quiete, il comodo, il conveniente. Sono essenzialmente servili delle forze al potere, qualsiasi esse siano. Non hanno senso critico e, se ce l'hanno, si guardano bene dall'esercitarlo. Pensano, infatti, solo alla propria auto-preservazione e benessere. Sono loro, infatti, a "fare carriera" e a "sistemarsi". Sono edonisti e "sanno divertirsi". Ritengono (anche se non te lo diranno mai) che prendere posizione su una cosa qualsiasi sia da stupidi. Appaiono così delle "brave persone", ma sono "privi", vuoti, "senza". Dante Alighieri li aveva relegati all'inferno nel girone degli ignavi. L'ignavia mancanza di volontà e di fermezza di carattere, che determina l'incapacità di agire, di fare scelte e simili, viltà, infingardaggine, accidia, pigrizia. Nella Bibbia si parla dell'ignavia più che altro come pigrizia. Se indubbiamente, però, la pigrizia fa parte di quelli che abbiamo posto sotto la categoria di "A privativo", essa non li rappresenta del tutto. E' loro più vicina l'idea di indifferenza, ed in particolare quella di "anomia", parola tradotta spesso come insensibilità.

Nell'AT è avere orecchi ma non sentire, occhi ma non vedere: "Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione, hai aperto gli orecchi, ma senza sentire" (Isaia 42:20). Chi si trova in questa situazione non è intelligente come pensa di essere, ma è "stolto e privo di senno": "Ascolta, popolo stolto e privo di senno, che ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode" (Geremia 5:21). E' la situazione di coloro che "non sono capaci di prestare attenzione", perché si sono "impermeabilizzati" all'ascolto della verità perché non ne hanno voluto sapere: "A chi parlerò, chi scongiurerò perché mi ascolti? Il loro orecchio non è circonciso, non sono capaci di prestare attenzione. La parola del Signore è per loro oggetto di scherno, non ne vogliono sapere" (Geremia 6:10).

Dio continua a parlare loro ma essi ostinatamente non ascoltano: "A me rivolsero le spalle, non la faccia; io li istruivo con continua premura, ma essi non mi ascoltarono né appresero la correzione" (Geremia 32:33); non danno retta a Dio, non lo prendono sul serio: "Vi ho inviato con assidua premura tutti i miei servi, i profeti, per dirvi: Abbandoni ciascuno la sua condotta perversa, migliorate le vostre azioni e non seguite e non servite altri dèi, per poter abitare nella terra che ho concesso a voi e ai vostri padri, ma voi non avete prestato orecchio e non mi avete dato retta" (Geremia 35:15). Di conseguenza non cercano né consultano Dio e si allontanano da lui: "...quelli che si allontanano dal seguire il Signore, che non lo cercano né lo consultano" (Sofonia 1:6). Il loro cuore è diventato sempre più duro: "Ma essi hanno rifiutato di ascoltarmi, mi hanno voltato le spalle, hanno indurito gli orecchi per non sentire. Indurirono il cuore come un diamante, per non udire la legge e le parole che il Signore degli eserciti rivolgeva loro mediante il suo spirito, per mezzo dei profeti del passato. Così fu grande lo sdegno del Signore degli eserciti. Come quando egli chiamava essi non vollero dare ascolto, così quando essi chiameranno io non li ascolterò, dice il Signore degli eserciti. Io li ho dispersi fra tutte quelle nazioni che essi non conoscevano e il paese è rimasto deserto dietro di loro, senza che vi sia chi va e chi viene; la terra di delizie è stata ridotta a desolazione" (Zaccaria 7:11-14).

Si tratta di una situazione molto grave denunciata pure nel Nuovo Testamento: "Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!" (Matteo 13:15).

Notevole come questa situazione di "desensibilizzazione" e indurimento sia preannunciata per gli ultimi tempi: " Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, si raffredderà l'amore di molti" (Matteo 24:11-12).

La parola greca tradotta con “iniquità” denunciata come dilagante è anomía. Sia nella Bibbia greca che nel Nuovo Testamento e nella letteratura del giudaismo ad esso contemporaneo il vocabolo fa riferimento a quella che si può definire la “grande iniquità”, l’iniquità degli ultimi tempi nei quali avviene lo scontro frontale tra le forze del Male e il Regno di Dio. Tra gli evangelisti, Matteo impiega il termine anomía quattro volte (Matteo 7:23; 13:14; 23:28; 24:12) e nelle prime due ricorrenze compare proprio l’espressione operatori di iniquità tipica dei salmi. Nel Vangelo di Matteo l’anomía è l’elemento disgregatore per eccellenza, lo strumento del caos che mina le basi della socialità e del mondo; viene vista, in altre parole, come «l’ingiustizia sostanziale, storica e cosmica, il sovvertimento dell’essere e dell’esistere: le relazioni vitali scardinate»: "Va' da questo popolo e di': Udrete, sì, ma non comprenderete; guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano, e io li guarisca!" (Atti 28:26-27).

Di fatto questa è la situazione delle creature umane decadute: "Non c'è nessun giusto, nemmeno uno, non c'è chi comprenda, non c'è nessuno che cerchi Dio!" (Romani 3:11), situazione che si rileva persino in chiese compiacenti: "Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista" (Apocalisse 3:15-18).

Ecco così come la situazione di chi è caratterizzato da "A privativo" sia molto grave, e proprio perché pensano di stare bene e che non manchi loro nulla. L'appello evangelico al ravvedimento è dunque per loro quantomai appropriato. Lo riceveranno? Da sé stessi, a causa del loro indurimento no. E' Dio l'unico che possa spezzare il loro cuore indirito e indifferente ed operare un trapianto che dia loro un cuore di carne vivo, pulsante e sano. E' solo Dio che può scuoterli e rigenerare il loro spirito, farli risuscitare dalla loro morte spirituale. La loro indolenza è proprio questa: privazione di vita, morte. Preghiamo per chi si trova in questa temibile situazione. Potrebbe essere uno dei nostri cari. Preghiamo che Dio intervenga con potenza nella loro esistenza e dia loro nuova vita in Cristo Gesù.


sabato 14 settembre 2019

Alcuni hanno deviato... non sanno né quello che dicono né quello che affermano con certezza.

Il testo completo del brano della lettera a Timoteo, seconda lettura della Liturgia della Parola di domani. Che i lezionari tagliano come spesso fanno in modo discutibile.


Alcuni hanno deviato da queste cose e si sono abbandonati a discorsi senza senso. Vogliono essere dottori della legge , ma in realtà non sanno né quello che dicono né quello che affermano con certezza. 

Noi sappiamo che la legge è buona, se uno ne fa un uso legittimo; sappiamo anche che la legge è fatta non per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e gli irreligiosi, per coloro che uccidono padre e madre, per gli omicidi, per i fornicatori, per i sodomiti, per i mercanti di schiavi, per i bugiardi, per gli spergiuri e per ogni altra cosa contraria alla sana dottrina, secondo il vangelo della gloria del beato Dio, che mi è stato affidato.

Io ringrazio colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù, nostro Signore, per avermi stimato degno della sua fiducia, ponendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento; ma misericordia mi è stata usata, perché agivo per ignoranza nella mia incredulità, e la grazia del Signore nostro è sovrabbondata con la fede e con l’amore che è in Cristo Gesù.

Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata: che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali io sono il primo. 

Ma per questo mi è stata fatta misericordia, affinché Gesù Cristo dimostrasse in me, per primo, tutta la sua pazienza, e io servissi di esempio a quanti in seguito avrebbero creduto in lui per avere vita eterna. 

Al Re eterno, immortale, invisibile, all’unico Dio, siano onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. 

Ti ripeto l’esortazione che ti feci mentre andavo in Macedonia, di rimanere a Efeso per ordinare ad alcuni di non insegnare dottrine diverse e di non occuparsi di favole e di genealogie senza fine, le quali suscitano discussioni invece di promuovere l’opera di Dio, che è fondata sulla fede. 

Lo scopo di questo incarico è l’amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. 

Prima lettera a Timoteo 1:3-17



venerdì 13 settembre 2019

Il trittico

Stamani, pregando, mi è tornata in mente una discussione di tanti anni fa. In Seminario, dove ero un giovane prete formatore, discutevo con alcuni seminaristi. Uno di loro mi interrogava su quello che definitiva "un accumulo" di memorie e di feste.

"Ieri", diceva, "abbiamo celebrato la Memoria di Giovanni Crisostomo, oggi la Festa dell'Esaltazione della Croce, domani Maria Addolorata. Non è troppo?".

Ricordo che presi tempo e poi gli risposi. Allo stesso modo in cui risponderei oggi a chi mi ponesse una domanda simile.

Ieri, dissi, abbiamo celebrato Giovanni Crisostomo, Padre della Chiesa indivisa di Oriente e di Occidente, che ci invitava a stringerci intorno alla Scrittura, a fidarci solo di essa, perchè solo in essa è il Cristo, tutto il Cristo. Lo chiamiamo Crisostomo, bocca d'oro, proprio perchè dalla sua bocca usciva solo l'esposizione della bellezza, della ricchezza, della profondità dell'oro della Parola di Dio.

Oggi celebreremo l'Esaltazione della Croce, altra festa, e non è un caso, propria sia dell'Oriente che dell'Occidente, dell'ortodossia come del cattolicesimo, che ci ricorda che però quello che è oro agli occhi di Dio è disprezzato agli occhi del mondo, messo in Croce, perseguitato. Perchè il mondo lo mette in crisi, lo mette in discussione, ne svela la menzogna.
Ci ricorda, questa festa, che la Croce è il destino di chi ha nella sua bocca solo l'oro della Parola di Dio e nient'altro.
Ce lo dice a più riprese Gesù nel Vangelo. Hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. Prendete la croce ogni giorno e seguitemi. E ce lo rammenta con forza Paolo. Niente altro occorre predicare se non il Cristo Crocifisso e poi Risorto. In nessun altro ci si deve gloriare se non della Croce di Gesù. Nessun altro vanto se non Cristo Crocifisso.

Perciò domani, 15 settembre, si celebra l'Addolorata. Perchè Maria ci insegna a rimanere fermi e stabili nella fede sotto la Croce. A meditare in cuor nostro il mistero della Croce del Signore. A fare solo ciò che Egli ci avrà detto di fare. A lasciare che la spada della fedeltà assoluta alla Parola di Dio ci trafigga l'anima.

Così, dissi alla fine ai seminaristi che mi ascoltavano, dovete guardare alla liturgia di questi tre giorni, con la stessa passione, gratitudine con cui guardereste la bellezza di un trittico di un pittore rinascimentale o medievale. Con la Crocifissione al Centro e ai due lati Giovanni, il discepolo che egli amava, e Maria, la Madre di Dio. E vedere con gli occhi della fede, da una parte il Crisostomo, che ne annunciava la sconvolgente bellezza e grandezza con la predicazione, e dall'altro l'Addolorata, che ci invita a sostare con lei in preghiera sotto la Croce.


Ricordo un "grazie don Luca" e che poi mi avviai alla Cappella della Fiducia, per vestirmi.


Ecco l'albero della Croce. Ad esso fu sospeso, il Salvatore del mondo.

Nell'ultimo Venerdì Santo, venerdì di Passione, celebrato con i fratelli e le sorelle al Portuense, è toccato a me portare il Crocifisso, sollevarlo per tre volte e cantare il versetto del titolo.

Oggi festeggiamo l'Esaltazione della Santa Croce, ed ancora una volta celebriamo la gloria di Dio.

Dai «Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo
(Disc. 10 sull'Esaltazione della santa croce;
PG 97,1018-1019.1022-1023)

La croce è gloria ed esaltazione di Cristo

Noi celebriamo la festa della santa croce, per mezzo della quale sono state cacciate le tenebre ed è ritornata la luce. Celebriamo la festa della santa croce, e così, insieme al Crocifisso, veniamo innalzati e sublimati anche noi. Infatti ci distacchiamo dalla terra del peccato e saliamo verso le altezze. È tale e tanta la ricchezza della croce che chi la possiede ha un vero tesoro. E la chiamo giustamente così, perché di nome e di fatto è il più prezioso di tutti i beni. È in essa che risiede tutta la nostra salvezza. Essa è il mezzo e la via per il ritorno allo stato originale.

Se infatti non ci fosse la croce, non ci sarebbe nemmeno Cristo crocifisso. Se non ci fosse la croce, la Vita non sarebbe stata affissa al legno. Se poi la Vita non fosse stata inchiodata al legno, dal suo fianco non sarebbero sgorgate quelle sorgenti di immortalità, sangue e acqua, che purificano il mondo. La sentenza di condanna scritta per il nostro peccato non sarebbe stata lacerata, noi non avremmo avuto la libertà, non potremmo godere dell'albero della vita, il paradiso non sarebbe stato aperto per noi. Se non ci fosse la croce, la morte non sarebbe stata vinta, l'inferno non sarebbe stato spogliato.

È dunque la croce una risorsa veramente stupenda e impareggiabile, perché, per suo mezzo, abbiamo conseguito molti beni, tanto più numerosi quanto più grande ne è il merito, dovuto però in massima parte ai miracoli e alla passione del Cristo. È preziosa poi la croce perché è insieme patibolo e trofeo di Dio. Patibolo per la sua volontaria morte su di essa. Trofeo perché con essa fu vinto il diavolo e col diavolo fu sconfitta la morte. Inoltre la potenza dell'inferno venne fiaccata, e così la croce è diventata la salvezza comune di tutto l'universo.

La croce è gloria di Cristo, esaltazione di Cristo. 

La croce è il calice prezioso e inestimabile che raccoglie tutte le sofferenze di Cristo, è la sintesi completa della sua passione. 

Per convincerti che la croce è la gloria di Cristo, senti quello che egli dice: «Ora il figlio dell'uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui, e lo glorificherà subito» (Gv 13, 31-32).

E di nuovo: «Glorificami, Padre, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17, 5). E ancora: «Padre glorifica il tuo nome. Venne dunque una voce dal cielo: L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò» (Gv 12, 28), per indicare quella glorificazione che fu conseguita allora sulla croce. Che poi la croce sia anche esaltazione di Cristo, ascolta ciò che egli stesso dice: Quando sarò esaltato, allora attirerò tutti a me (cfr. Gv 12, 32). Vedi dunque che la croce è gloria ed esaltazione di Cristo.



Cristificazione

 Occorre "cristificarsi", diceva Giacomo Alberione. Cosa significa "cristificarsi"?  Non certo, io credo, semplicemente ...